Tassazione plusvalenza azioni

Tassazione plusvalenza azioni

 

Tassazione plusvalenze: a cosa si riferisce

Prima di affrontare l’argomento del calcolo della tassazione sulle plusvalenze azionarie è necessario analizzare cosa sia una plusvalenza.

La plusvalenza è il profitto realizzato vendendo un’attività finanziaria ad un prezzo maggiore rispetto a quello a cui si è acquistata. È detta anche Capital Gain, ovvero guadagno in conto capitale. Può concretizzarsi su quasi tutti i diversi tipi di strumenti finanziari esistenti: titoli azionari, titoli di stato, obbligazioni emesse da società private e valute.

La plusvalenza può essere tassata solo dopo che è stata realizzata, cioè monetizzata attraverso la vendita dello strumento finanziario a cui si riferisce. Se rimane latente, ossia con un prezzo di vendita potenzialmente maggiore rispetto a quello d’acquisto ma che non viene monetizzato tramite vendita, non scatta la tassazione.

Per inquadrare bene questa tematica, è necessario specificare che, oltre che con un guadagno in conto capitale, le attività finanziarie possono generare guadagni in un altro modo slegato dalle oscillazioni del prezzo di vendita rispetto a quello d’acquisto. Ovvero grazie alla remunerazione periodica in termini di tasso d’interesse (cedola) sulle obbligazioni o di dividendi sui titoli azionari. Ai fini della tassazione, questi due tipi di rendimenti sono distinti nettamente e trattati diversamente. Non a caso, per il Fisco, i guadagni originati da cessione a prezzi superiori rispetto a quello di acquisto si chiamano redditi diversi mentre quelli derivanti dalla remunerazione derivante da cedole o da dividendi si chiamano redditi da capitale.

Inoltre, in maniera speculare rispetto alle plusvalenze (guadagni), esistono anche le minusvalenze (perdite) realizzate in conto capitale vendendo uno strumento finanziario ad un prezzo inferiore rispetto a quello d’acquisto.

In alcuni casi, vengono considerate minusvalenze deducibili.

In generale, le minusvalenze hanno il vantaggio che possono essere compensate con le plusvalenze al fine di evitare ad un contribuente di essere tassato su alcune operazioni di compravendita in profitto quando altre operazioni in perdita hanno eroso il guadagno complessivo.

Ci sono però dei limiti a questa compensabilità e sono principalmente due:

1) le minusvalenze sono ammesse a compensazione delle plusvalenze solo per i quattro anni solari successivi alla fine dell’esercizio in cui sono state realizzate.

2) per alcuni strumenti finanziari come i fondi d’investimento e gli ETF (Exchange Traded Funds, fondi d’investimento che replicano passivamente degli indici azionari o obbligazionari), le minusvalenze realizzate non possono essere compensate con i guadagni in conto capitale perchè il legislatore fiscale italiano ritiene che queste due casistiche di perdita/profitto abbiano natura reddituale differente e non possano quindi essere messe sullo stesso piano per compensarle. Solo per gli ETF e per i fondi d’investimento infatti, il guadagno derivante dalla vendita ad un prezzo superiore a quello d’acquisto viene calcolato con regole particolari e viene considerato un reddito da capitale simile alle cedole delle obbligazioni o ai dividendi delle azioni. Questa peculiarità, oltre ad essere senza fondamento dal punto di vista sostanziale, genera anche forti inefficienze ed iniquità fiscali per il contribuente.

 

Tassazione plusvalenza persone fisiche

In questa sede, si illustra il trattamento relativo alle plusvalenze realizzate dalle persone fisiche non nell’ambito di un’attività d’impresa, in quanto quest’ultima casistica viene ricondotta alle regole sulla tassazione del reddito d’impresa prodotto da soggetti giuridici.

Per le persone fisiche che realizzano un Capital Gain, occorre fare una distinzione riguardo al regime fiscale scelto al momento dell’acquisto dello strumento finanziario considerato.

Se l’investitore ha optato per il cosiddetto regime del risparmio amministrato (in cui l’intermediario agisce solo come sostituto di imposta ma le scelte di investimento sono lasciate al risparmiatore) allora sarà l’intermediario finanziario a calcolare la ritenuta d’acconto e a prelevarla. Sull’investitore non graveranno ulteriori obblighi amministrativi, in quanto devono essere gli stessi intermediari finanziari ad occuparsene.

Se invece si è scelto il cosiddetto regime dichiarativo, l’investitore percepisce il Capital Gain al lordo delle imposte per cui sarà sua cura – o meglio del suo commercialista – calcolare e versare le imposte secondo i modi e tempi previsti per la dichiarazione dei redditi. L’investitore dovrà, in particolare, ricostruire il proprio portafoglio finanziario seguendo il metodo LIFO (Last In First Out = l’ultimo a entrare è il primo a uscire), determinando sia il rendimento ottenuto che le imposte da versare.

 

Esempio di tassazione su plusvalenza

Si ipotizzi di sottoscrivere un’azione comprata a 100 e rivenduta a 110. Il Capital gain conseguito, corrisponde a 10, si chiama reddito diverso e su di esso viene calcolata un’imposta nella misura del 26 per cento.

Se, invece di un’azione, lo strumento finanziario sottoscritto fosse stata un’obbligazione, il prelievo sarebbe parimenti del 26 per cento. Stesso livello del 26 cento anche per il prelievo sulle cedole della gran parte delle obbligazioni societarie e sui dividendi distribuiti dalle azioni.

Unica eccezione di rilievo è rappresentata dalla tassazione sui Titoli di Stato italiani o su quelli emessi dagli altri principali stati sovrani (appartenenti alla c.d. White List, ovvero Paesi che, pur con un regime fiscale agevolato, scambiano comunque informazioni con altri Stati, tramite convenzioni) o dagli organismi sovranazionali (BEI – Banca Europea degli Investimenti; BIRS – Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo; IFC – International Finance Corporation). Questi sono tassati al 12,5 per cento sia sui Capital Gains realizzati che sulle cedole distribuite.

La misura del 26 per cento è il punto di arrivo di una serie di rialzi delle aliquote fiscali, operati negli ultimi 10 anni dai vari governi italiani, per aumentare il gettito fiscale con la giustificazione di allinearsi al livello medio europeo.

 

Tassazione rendite finanziarie in Europa

In Europa, soprattutto dopo il suddetto aumento delle aliquote al 26 per cento , il livello dell’imposizione fiscale sulle rendite finanziarie è relativamente omogeneo.

A fronte del 26 per cento italiano, di seguito quanto si riscontra ad esempio nei principali Paesi Europei: il 26 per cento in Germania, un livello compreso tra il 18 per cento e il 35 per cento in Francia (a seconda che si tratti di interessi cedolari obbligazionari o dividendi o Capital Gains percepiti da azioni) e compreso tra il 21 per cento e il 27 per cento in Spagna (a seconda del fatto che si tratti di distribuzioni cedolari o dividendi rispetto al Capital Gain tassato a crescere con il reddito del contribuente). In Gran Bretagna, invece l’imposizione fiscale sui guadagni cedolari obbligazionari è del 20 per cento, a fronte di un 18-28 per cento sul Capital Gain (quest’ultimo a seconda del reddito del contribuente).

 

Tassazione cedole obbligazionarie

Il prelievo della tassazione sulle cedole avviene di norma in occasione dello stacco della cedola stessa.  Qualora i detentori di obbligazioni siano persone fisiche che hanno optato per il regime amministrato, la cedola accreditata al netto dell’imposta dovuta secondo i parametri e le aliquote descritte sopra.

Le obbligazioni però, vista l’abbondante liquidità dei mercati in cui sono trattate, sono spesso acquistate e rivendute prima della loro scadenza al fine di percepire il rendimento cedolare anche solo per periodi limitati. In caso di alienazione dello strumento finanziario prima che la cedola sia staccata, la tassazione sul rendimento parzialmente goduto viene riscossa con un meccanismo particolare spiegabile con un esempio.

Si consideri un’obbligazione societaria detenuta per 100.000 euro nominali nel portafoglio di un privato sotto regime amministrato. L’obbligazione ha scadenza 5 anni da adesso e una cedola del 10 per cento annuale pagabile il 30 giugno di ogni anno. Se il possessore vende l’obbligazione al 31 dicembre, ha percepito gli interessi solo per metà dei 12 mesi di competenza.

Si pone quindi il problema di come riscuotere le imposte sugli interessi parziali dal momento che quando la cedola pagherà al 30 giugno non sarà più nelle mani del primo possessore che l’ha venduta. Questa questione si risolve con una convenzione (applicabile alla gran parte delle obbligazioni: esiste un elenco delle obbligazioni in oggetto contenuto nel Dlgs 239/1996) secondo cui l’acquirente paga al venditore la parte di rendimento di cui ha goduto quest’ultimo – nel nostro esempio sei dei 12 mesi di rendimento al 10 per cento – in modo che alla data di pagamento della cedola, ricevendo il secondo possessore tutto l’importo, e una volta sottratto quanto pagato al venditore, gli interessi percepiti sono quelli effettivamente maturati.

Per quanto riguarda il regolamento degli aspetti fiscali, al venditore viene pagato il rendimento al netto delle imposte dovute (è una specie di sconto che il venditore concede all’acquirente, come se gli fornisse i contanti per pagare in seguito la sua parte di tasse dovute) in modo che le imposte pagate alla fine dal nuovo possessore sono solo quelle di sua competenza, cioè relative ai soli suoi 6 mesi di rendimento goduto.

 

Tassazione dividendi azionari

Sempre rimanendo nell’ambito di persone fisiche che non svolgono attività d’impresa, i dividendi percepiti dalle azioni sono tassati al 26 per cento alla fonte, cioè vengono erogati dalla società che li distribuisce già al netto della tassazione. Tralasciando dettagli strettamente tecnici, in presenza di dividendi relativi a quote di partecipazione non qualificate (inferiori al 5 per cento, se la società erogante il dividendo è quotata in Borsa, o inferiori al 25 per cento, se la società non è quotata), l’imposizione viene effettuata dalla società stessa e l’importo non deve essere inserito in dichiarazione dei redditi.

Se la quota di partecipazione nella società che dà origine al dividendo è invece qualificata, l’imposta si applica solo sul 49,72 per cento del lordo distribuito e viene calcolata secondo gli ordinari scaglioni IRPEF. Non c’è prelievo alla fonte e si deve inserire la voce nella dichiarazione dei redditi del soggetto percettore.

Qualora la società erogante sia estera, potrebbe verificarsi che lo Stato dove risiede la società erogante già tassi a monte il dividendo per cui, per evitare doppie imposizioni, è necessario verificare se esiste una convenzione vigente fra l’Italia e lo Stato estero per richiedere eventualmente il rimborso dell’importo doppiamente tassato (può essere fatto dall’intermediario finanziario dove si appoggia il deposito titoli).